Prima classificata – Antonella Pagano
Cuore sticchettato
E’ terso il cielo in questa gelida domenica di gennaio. M’accorgo d’aver perso l’amore. M’accorgo d’aver perso l’oggetto del mio amore. Forse più corretto dire il soggetto cui riversavo tutto l’amore che colma l’ampolla di questo mio cuore sticchettato. Già, quell’armonioso ticchettac adesso ha perso l’armonia, è sticchettato. Salterella, si tuffa in fondo, pare situarsi in gola, poi sembra sgusciar via dalla bocca insieme al primo buongiorno, per rientrare più sticchettato che mai a sconquassarmi il petto. Il cielo è terso in questo gennaio in cui il soggetto della mia tenerezza è….non so esattamente dove. E’ domenica, mi dico. Prendi il largo, sei una vela col vento in poppa. Va! vai! E vai! Fumo, ombre e inquinanti? Spirati tutti. La vita colma la vita. Tutta l’aria è in festa. E vai! Va! La mia automobile fa centonovanta all’ora. La Colombo è un’arteria esangue stamane. Non c’è anima viva. Corro, infrango il muro dell’assenza per tuffarmi in un quartiere che stamane di più m’attrae. Sono una graffetta che ha perso il suo documento…e pure l’allegato. Mano a mano che m’avvicino sento che la temperatura si scalda. Sento voci. E’ la festa della domenica, del mercato. Che festa! Che processione di colori! In questa gelida domenica di gennaio il cielo è terso e profuma di pannocchia alla brace. Me la compro e la mangio per la strada; accanto scivola morbida, ondeggiante la processione dei colori. Anime di tutto il mondo con la loro mercanzia. Beh, non è propriamente tutta loro. Incontro il mondo da amare. Un solo soggetto per tutto l’amore che ho? Che idiozia! C’è un mondo intero qui da amare! A destra c’è un’auto che è bancarella, ha il portellone posteriore aperto, fa da laboratorio. Ripara orologi e cambia cinturini. Mi sono accorta d’avere in borsa l’orologino meccanico, ho perduto la corona….dunque è fermo. E’ un anno che s’è rifugiato nella borsa finendo dimenticato. E’ un piccolo orologio dei tempi felici. Ticchettìo impercettibile. Bastava l’ eloquente, ciclopico battito del cuore innamorato a scandire le ore del tempo innamorato. Adesso debbo ripristinare l’innaturale ticchettìo perchè io possa conoscere l’ora. Senz’amore il tempo non si sa misurare. E del resto che bisogno c’è di misurarlo? Assente amante e tempo. La ragione della misurazione del tempo risiede nell’amore. Adesso arriva! Sono le diciassette e dieci; ha detto che sarebbe arrivato alle diciassette e trenta. Dai! Dai, dà! Bene bene, tutta elegante, due gocce di profumo, dai, dai, dà. Ecco il citofono! Che fai scendi? Sei pronta? Si si si si, arrivo! E il volare per cinque piani di scalini pare infinito, più infinita sarebbe stata l’attesa dell’ascensore. Eccomi! Tuffandomi tutta intera tra le sue braccia. Signora, signora, signò ecco fatto. Tutto ok? Il suo orologio è perfetto, fanno venti euro. Signora, signò. Mi scusi, m’ero infilata tra i pensieri. Il cielo è terso in questo gelido giorno di gennaio. Ricomincio a misurare il tempo e il ticchettìo mi riporta l’assenza. L’Amore! Che cosa meravigliosa! Misura a modo suo, per giorni, per mesi…sai caro è già un mese! Nostro figlio ha già un mese! Non so di quante cellule sia fatto, ma son già tante. Un esserino che compie un mese di moltiplicazioni cellulari. Otto mesi ancora, altre duecentoquaranta albe e tramonti e scampanìi di mezzodì, cinquemilasettecentosessanta ore ancora, e minuti? Trecentoquarantacinquemilaseicento minuti, ticchettìi per l’appunto, ticchettìi mirabolanti per una vita. Però! E invece? Io sto qui assolutamente sticchettata. Una bancarella dopo mi ritrovo dinanzi a un milione di scarpe; so già, so bene che se mi fermassi, almeno cinque mi farebbero l’occhiolino, richiamo irresistibile, non v’è antidoto, le comprerei e…. e poi dovrei comprare anche l’ennesima cassapanca per riporle. Inutile acquistare il biglietto per fare il giro del mondo, ho scarpe a sufficienza per farne almeno tre. Guarda là quella verde acido con un gioiello sul davanti…pietre che luccicano e che fanno l’occhiolino a ripetizione. O fuggo, o ci casco. Fuggo!E là ecco un signore molto colorato che mi sorride e m’invita a visitare la sua bancarella e i suoi abiti che piovono dal cielo in un’ affascinante girandola di colori. Sa che lei è riuscito a catturare l’arcobaleno e portarlo a Porta Portese? Lui ride con un fare che mi cattura. E’ un afgano di mezza età, composto, rassicurante. Signora, Porta Portese ha già l’arcobaleno tutto suo… semmai io con la mia bancarella ne siamo un frammento, colorato! Galante, spiritoso! Lei signora, per esempio, è un raggio dell’arcobaleno di Porta Portese. Questo cappellino azzurro e questo suo cappottino indaco, le sue scarpe, il colore del suo smalto sulle unghie, fanno tutt’insieme un meraviglioso arcobaleno. Son grato a Dio per avermi regalato questo cielo e questo quartiere-mondo, luogo che sa d’universo ma che conserva il suo preciso odore. E’ come tornare dalla mia donna, dal suo odore che mi dice: ecco, sei a casa… mentre mi sprofondo nell’abbraccio più sicuro del mondo. Il porto più sicuro del mondo! Che meraviglia questo mercato delle pulci; come ha saputo farsi famoso, anzi famosissimo, è come dire che offre ogni pensiero immateriale materializzato. Vestiti usati e nuovi, panini con salsiccia e porchetta, marche tarocche, vecchie biciclette, caschi da moto, valigie, borse, piante, dischi, mobili, cd, ombrelli, taglia puntarelle, giocattoli, rossetti, pigiami, corsetteria per ogni tipo di donna, suoni, odori e cuori lontani che hanno palpitato in abiti usati, vestiti che hanno vestito corpi che hanno gioito e che hanno sofferto. Sono ancora nei pressi della porta e osservo lo stemma di Papa Innocenzo X Pamphili. Impose il proprio stemma allorchè la si inaugurava…era morto Urbano VIII Barberini che l’aveva voluta allorchè ampliava le Mura Leonine a difesa del Gianicolo. Insegne nobiliari e papali, penso mentre mi capita tra le mani un abito coloratissimo, un rosso intenso aranciato con disegni bellissimi e soprattutto un corpetto tempestato di perline. E’ un po’ liso, ma quanta storia c’è passata dentro? Dove sarà la ragazza che lo indossava? Perché lo ha venduto? Com’è arrivato a Porta Portese? In Afganistan il termine “donna” viene usato dagli uomini come un insulto e le donne in Afganistan sono naqis-e-aql, stupide sin dalla nascita; le famiglie festeggiano la nascita d’ un maschio, non festeggiano la nascita d’una femmina. Le donne vivono recluse nei purdah, le loro case. E’ terso il cielo in questa gelida domenica di gennaio. Giovani donne, ragazzi e gente varia d’ogni età camminano per strada con il sole negli occhi, luccicano i loro occhi per la gioia di così tanta mercanzia. Luccicano i miei occhi al ricamo di così tante perline in un corpetto che desidero indossare, sentirlo sulla mia pelle, regolare il ticchettìo del mio cuore al ticchettìo del cuore per il quale è stato confezionato. Stringo tra le mani quel corpetto e d’un tratto …un boato, un fragore tremendo, urla dappertutto. Una bomba è scoppiata proprio dappresso alla donna che indossava quell’abito….mio Dio! Quelle donne non hanno il diritto della conoscenza, non hanno diritto al sapere. Le tribù tutelano con la violenza il non diritto. Che paradosso! E’ terso il cielo in questa gelida domenica di gennaio. Re Amanullah nel 1929 fu costretto all’esilio per aver creato le prime scuole per le bambine e aver autorizzato le prime ragazze a studiare in Turchia. Signora? Sta bene? Cosa si sente? Oh, mi scusi, nulla! Nulla! Pensavo al suo paese, alla vita delle donne in Afganistan. Poso il corpetto sulla bancarella e sono attratta da tre fiori di stoffa e perline con il calice in argento sbalzato, lo prendo in mano e penso di annetterlo alla mia raccolta di campanelli, suona dolcissimamente, ma appena lo lascio suonare, un brivido lungo la schiena mi sposta in una terra che non ho percorso. Le donne non debbono sapere; è legge l’analfabetismo femminile; è legge imporre il matrimonio e l’uomo che debbono sposare; è legge prezzare la sposa! Dai tre fiori che inavvertitamente stringo tra le mani viene giù un liquido, mi bagno le dita delle loro lacrime e il liquido bagna il cuore. Ustiona l’anima. Lacrime di fuoco. E’ terso il cielo in questa gelida domenica di gennaio. Riprendo a suonarli, ecco l’avvento! Arriva il tempo delle donne. Studiano, leggono, sanno, comprendono, occupano, occupano posti di prestigio… ma i fiori tremano nella mia mano….un terremoto sconvolge il mio cuore e quelle terre; tutto pare riavvolgersi, si ritorna al passato. Una crudelisima moviola cancella il progresso delle donne, la ruota la muovono al galoppo i Mujiahidin…leggo su un giornale da qualche parte: corre l’anno 1992. Un film si srotola cruento e pressante davanti ai miei occhi, stritola il cuore. Adesso i fiori fibrillano nelle mie mani che fibrillano con i fiori, lacrime e corpi violati, molestie sessuali dappertutto, in ispecie contro le studentesse all’Università e l’imposizione del burqa. Divengo invisibile, tutte le donne divengono invisibili, obbligatoriamente… ma il tramonto si tinge di colori ancora più forti e foschi…nel 1994 compaiono i Talebani, ogni traccia di progresso viene spazzata via, le donne sembrano scomparire, le scuole femminili chiuse e alle bambine è permesso solo di studiare il Corano. E’ terso il cielo in questa gelida domenica di gennaio. Claudio Baglioni canta da un vecchio disco…porta Portese: è domenica mattina si è svegliato già il mercato…C’è la vecchia che ha sul banco foto di Papa Giovanni lei sta qui da quarant’anni o forse più. Porta Portese Porta Portese Porta Portese cosa avrai di più? Ha tanto di più che fa di questa domenica un giorno speciale per me. In questo quartiere non ci son nata, ma è come lo fossi stata. E’ terso il cielo in questa gelida domenica di gennaio. Sento il ticchettìo dell’orologino dei tempi felici come se battesse più sonoramente, acquisto il vestito afgano con tutto il suo odore forte di spezie e vecchi sudori, lo piego ben bene e me lo porto come un ricordo di famiglia, stretto sul cuore, acquisto anche i tre fiori di stoffa con le perline, han visto la guerra e oggi, in questa tersa e gelida domenica di gennaio s’inebriano di bell’aria fresca e odorosa di Roma a Porta Portese. Ho fatto un lungo viaggio…e la processione di colori mi trasporta ancora, mi spinge e m’addentro tra bancarelle di dischi e musiche e pellicce che chissà da dove arriveranno e mutande di tutte le fogge e colori e montagne di abiti usati dove donne e uomini paiono cercare la curiosità del secolo… quand’ecco la famosa attrice. Anch’essa a rovistar tra tutto quel bric a brac, prova un cappotto inglese, poi un cappello con le piume, la camicetta di pizzo anni venti, il collo un po’ spelacchiato d’una volpe di gran signora borghese…è un circo che m’incanta …un circo…un gioco meraviglioso…credo che per oggi non me ne andrò.
Seconda classificata ex aequo – Emma Saponaro
Quando una mamma tiene banco
«No, Michele. Non andare. C’è troppa gente e poi ti penti.»
«Ma ci starò solo un’ora…»
«Eh, un’ora. Lo so come va a finire. Dai retta a me, andiamo a passeggiare nel parco.»
Questo era il dialogo tra mia madre e mio padre che si ripeteva ogni volta che lui esprimeva il desiderio di andare al mercato di Porta Portese, un lungo serpentone di bancarelle di ogni tipo, ognuna con i suoi profumi e i suoi colori.
Immagino cosa sarebbe accaduto se ci fosse andato. Mio padre avrebbe passeggiato tra i primi banchi con indifferenza. Non gli interessavano le camicie americane usate, i giocattoli d’epoca, le vecchie camicie da notte in pizzo bianco, i 45 giri di Gabriella Ferri, di Claudio Baglioni o dei Bee Gees, né tanto meno le ciambelle fritte o i croccantini di nocciole. Andava lì con una meta precisa, spinto dalla passione per le tracce del passato; oggetti che raccolgono storie di persone sconosciute e che conservano la memoria di chi non può più raccontare. Cercava, in particolare, cartoline e libri antichi, meglio se con dedica o anche solo scarabocchi. A volte, lo vedevo intento a fissare quelle scritte e mi accorgevo dell’emozione che brillava nei suoi occhi azzurri.
Per non tornare a casa a mani vuote, avrebbe camminato penando la calca senza un lamento. Si sarebbe spinto fino a metà mercato, e lì sarebbe stato colpito da una piccola bancarella. Una bancarella messa su abilmente in quattro e quattr’otto per essere smontata con la stessa rapidità nel caso si fosse avvicinata una guardia. Già, perché quella era una bancarella abusiva, gestita da tre liceali: una con i capelli rossi a caschetto, un’altra con le trecce bionde e la terza con una montagna di ricci castani.
Le tre ragazze erano state accettate con simpatia dai vicini mercanti che si dimostravano gentili e premurosi. I commercianti erano la chioccia e loro tre i pulcini da tenere in caldo e proteggere.
Ogni domenica mattina, le ragazze arrivavano con calma, quando ormai il mercato era in piena attività, e si collocavano nello spazio centrale lasciato libero e difeso dai loro vicini. Aprivano uno sgabello da pic-nic e vi piazzavano su una quarantottore. Una volta aperta, si poteva ammirare la loro mercanzia. Orecchini, collanine e braccialetti lavorati con fili d’argento e decorati con perline di vetro colorate di tutti i tipi, opache o trasparenti, brillavano in contrasto con il velluto nero luccicante con il quale era stato foderato l’interno della valigetta. Era un trio ben assortito e non solo fisicamente, ma le univa il fine ultimo di quella piccola attività. I guadagni, infatti, servivano per pagarsi le vacanze estive. Tutte e tre volevano essere autonome e non gravare sul portafogli dei genitori. Finanziarsi le vacanze era stata un’idea talmente entusiasmante che fu messa subito in pratica.
Alla vista di quelle tre ragazze, mio padre sicuramente si sarebbe incuriosito, intenerito. Pur essendo un tipo posato e rigoroso in famiglia, sapeva essere amabile e generoso nelle relazioni sociali. Ecco, io ora immagino lui che si avvicina alla minuscola bancarella, immagino mentre finge di interessarsi a quei semplici e colorati gioielli e acquistarli per aiutare le ragazze. Ma sento anche le sue riflessioni: “Non avranno soldi per comprare i libri”, “Che genitori sciagurati. Lasciare per strada le figlie per soldi. Piuttosto, io mangerei pane e cipolla”, “Mia figlia, per fortuna, non fa queste cose”.
Ma guardando le ragazze, ne avrebbe viste solo due, la rossa e la bionda, perché la riccia castana, alla sua vista, avrebbe chiesto asilo politico ai suoi vicini.
Non avrei mai potuto dire a mio padre che volevo la mia indipendenza economica. Non lo avrebbe mai accettato.
Ancora oggi, a distanza di quarant’anni, mi capita di passare per Porta Portese verso il pomeriggio. Le bancarelle non ci sono più, al loro posto solo spazzatura, scatole di cartone, cellophane e bottiglie. La via appare immensa, non più accogliente e rassicurante.
Gli operatori puliscono, tolgono ogni traccia di Porta Portese dalla strada, ma non dai miei ricordi.
Seconda clssificata ex aequo – Loredana D’Alfonso
UN’INSENSATA FELICITA’
Anna sorride alla signora maleducata e brusca che protesta per il prodotto non offerto in promozione.
Pazientemente le spiega che sono disponibili altri profumi a quel prezzo, ma la signora ha evidentemente deciso che sarà lei il capro espiatorio dei guai, veri o presunti, della sua giornata.
Non demorde con l’aggressività lei, non abbandona l’atteggiamento angelico Anna.
Non può.
Perdere un secondo lavoro, così faticosamente ritrovato, non sarebbe possibile.
Alla fine, la signora avvolta in una pelliccia nonostante il caldo anomalo di fine novembre romano, abbandona la preda e se ne va, come una leonessa sazia, stanca di straziare una gazzella che nemmeno mangerebbe.
Anna è bella e giovane e ha una cascata di ricci neri sulle spalle. E’ alta, ha il corpo snello e le occhiate ostili delle colleghe non possono indovinare quello che lei non fa nemmeno trapelare.
Marco si era stancato di lei. Senza giri di parole.
Stavano insieme da quando erano ragazzini, erano sposati solo da pochi anni. Si era stancato, apparentemente senza motivo.
Per quelle non-ragioni per cui finiscono gli amori, o meglio, i matrimoni, trascinandosi dietro carte, mobili, promesse, firme e tradimenti.
Era rimasto Valerio, tre anni, a guardare prima l’uno e poi l’altro, in un silenzio pieno di interrogativi non sciolti da una carezza di rassicurazione.
Marco è benestante, ma dopo la separazione non le dà nulla, nemmeno per il bambino.
E’ costantemente all’estero con la sua nuova compagna, non risponde nemmeno al cellulare. L’avvocato costa, e il tempo non si ferma per permettere agli eventi di assestarsi, va avanti inesorabile con tutti quei giorni così diversi da come Anna si sarebbe aspettato.
Ora c’è il part-time pomeridiano in profumeria.
E al mattino i giornali venduti davanti alla fermata della metro.
La casa è rimasta a lei e una stanza l’ha affittata a Sakura.
Anna sorride.
In quella specie di abisso che si era spalancato all’improvviso nella strada della sua vita e che aveva risucchiato gran parte delle sue certezze, si era imbattuta in quella ragazza cinese che cercava una camera in affitto.
Sakura aveva finito per non pagare nulla per quella stanza, e in cambio si occupava di Valerio quando lei doveva lavorare. Sarà stato un caso, ma il bambino aveva smesso di farsi la pipì addosso la notte ed era molto più sereno.
Sarà stato per il carattere allegro di Sakura, del fatto che cantava sempre, o di quelle filastrocche per bambini in cantonese che parevano divertire da pazzi Valerio.
Il turno al mattino presto, quello dei giornali, serve a coprire altre spese che spuntano di continuo come funghi.
A quell’ora Valerio dorme ancora, ci pensa Sakura alla colazione e la aspetta per andare al suo lavoro che finisce all’ora di pranzo.
La ragazza è a Roma per aprire un negozietto di bigiotteria su imitazione di quella griffata.
E’ arrivata con il fratello, il locale l’hanno già trovato, ma con lui non è potuta andare.
E’ andato a vivere a Piazza Vittorio con altri lavoratori, tutti uomini.
All’inizio, per Anna il turno di vendita dei giornali era stato duro, ancora adesso ci va con i capelli legati in una coda, ed un cappellino con la visiera calato sopra.
Come se fosse un’altra lei.
L’ha aiutata molto un collega, un bel ragazzo bruno che lei ha trattato sempre come un fratello minore.
Andrea le fa trovare sempre il bicchiere di carta con il caffè caldo e un bel sorriso di incoraggiamento.
Anna trovato anche un altro modo di alzare qualche euro in più. Ed è un’attività che non le pesa, anzi, le piace molto. Tutto si svolge in quel mercato, in quella zona tra via Portuense a via Ippolito Nievo, e poi tra viale Trastevere e piazza di Porta Portese.
Beh, quella è diventata la sua seconda casa.
Sfruttando la capacità manuale che ha sempre avuto, ha creato fascette colorate per capelli, collane e orecchini di perline, bambole di pezza . Ha portato sul banco, che divide con un’amica, anche alcune sue vecchie borse in pelle che ora si chiamano vintage….
Quando, a un certo punto, ha smesso di trattenere il respiro, ha visto che ce la può fare.
E la vita che sta vivendo è un altro film che non sa come andrà a finire.
Pensa a Marco poche volte perché non ha tempo per farlo e poi perché lo percepisce lontano, come visto da un cannocchiale impugnato alla rovescia.
L’avvocato non è ottimista perché lui ha dichiarato fallimento della sua società ed ottenere qualcosa per via giudiziale è diventato veramente difficile.
Marco aveva una società di produzione cinematografica, Anna non aveva mai saputo cosa producesse, sa solo che ora spende molti soldi e gira il mondo con una che fa la modella e attrice di soap.
Ha visto le foto che lei ha postato sul suo profilo Facebook.
E’ molto bella, moldava o ucraina, non ricorda bene, e ha poco più di vent’anni.
Non la odia, le sembra solo una povera disgraziata.
Forse sbaglia, ma questo è il suo pensiero.
Quando torna a casa la sera sente il profumo dei cibi preparati da Sakura, profumati da spezie a lei sconosciute ma gradite.
Trova Valerio già in pigiama, arrampicato sulla sedia, che gioca ad aiutare la ragazza e la guarda in uno stato di semiadorazione.
Non è più la sua vecchia casa dove abitava con Marco, vestita con abiti perbene.
Anna non sa cosa succederà ancora, ma di una cosa è certa.
Prima viveva come sotto anestesia, non avrebbe saputo dire se fosse felice o meno.
Non si poneva la domanda.
Aveva sposato Marco, era nato Valerio.
Ora, ogni singolo giorno della sua vita, ogni singola ora, erano diventati importanti.
La vita era diventata sua, e di nessun altro.
Sakura ha un amore che sta nascendo con un ragazzo italiano, ma non può dirlo al fratello.
Così si confida con lei, in un misto tra italiano e inglese che alle volte le fa scoppiare a ridere come due bambine.
Gli amici di Anna non esistono più. Erano amici ‘di coppia’, ma in realtà non lo erano di nessuno dei due e si sono liquefatti ad arte, nel momento in cui Marco è andato via con un’altra donna.
Cominciano ad arrivare a casa nuovi amici, personaggi genuini e bizzarri, che forse la portiera dello stabile avrebbe fermato per le scale, in altri tempi. In altri tempi.
Ora la portiera è contenta per Anna, l’ha sempre avuta in simpatia, contrariamente a Marco, che teneva sempre le distanze.
Una volta ha visto un bel ragazzo bruno con la barba, che ha accompagnato a casa Anna tenendole le buste della spesa. Lei l’ha salutato con allegria, con fare un po’ materno, ma la signora Ester la sa lunga, con tutta la gente che, in trent’anni, ha visto entrare e uscire da quel palazzo.
Quando si è girata per aprire l’ascensore lui l’ha seguita con uno sguardo innamorato.
La signora Ester in altri tempi si sarebbe scandalizzata. In altri tempi.
Quando vedeva Marco e Anna come una coppia perfetta e inaffondabile.
Alle volte trattiene Sakura in guardiola, le passa buste di verdura, carote, sedano, le ha spiegato anche, a gesti, come fare il battuto di carne per il ragù.
Le dà le uova fresche che prende in campagna da lei e le raccomanda di non dire nulla alla signora.
Sakura ride e sembra non capire, ma al contrario capisce tutto.
Capisce l’orgoglio, il pudore e il dolore delle donne come lei.
E capisce la determinazione e la dignità di Anna, in cui si riconosce, e all’inizio faceva finta di non sentire il pianto disperato dal bagno, dove lei si chiudeva quando non ne poteva più, per sparire dal cospetto del mondo intero.
Ma ora quei pianti non ci sono più e, andandosene, si sono anche portati via le occhiaie scure sotto i suoi occhi.
Albeggia, ed Anna, sveglia da un po’, è seduta dietro la finestra della sua camera.
Il sole fa fatica dietro ad una cortina grigia di nuvole ed una pioggerellina sottile che riga i vetri.
Lei ha in mano la sua tazza di caffè nero e lungo, che ha preparato con cautela, per non svegliare Valerio e Sakura.
Un nuovo giorno avanza.
E con esso, qualcosa che è assolutamente fuori posto e fuori contesto, e che assomiglia vagamente alla felicità.
Terzo classificato – Stefano Prati
Tutto Qui?
Beh, forse finalmente davanti a qualcosa su cui scrivere che non sia solo carta bianca.
Non é proprio come v’immaginate: no; non sono in una stanza d’albergo di Casablanca sotto alle pale del ventilatore che girano piano, seduto con le mani sulla mia fidata macchina da scrivere Remingthon (o Olivetti!), in mutande, sudato, con il bicchiere di whisky affianco alla carta e in mezzo a tante mosche che mi fanno incazzare.
No, non scrivo di spie, non scrivo di omicidi, semplicemente non scrivo. Ovvero non scrivo, ora, come di solito scrivo. Ho sempre scritto per un motivo ben preciso, con uno scopo, a una persona, per volergli trasmettere quello che per vari motivi non riuscivo a dirgli direttamente. Tutto è più spontaneo quando è così.
Ho sempre scritto, ora che ci penso, sempre e solo a donne. Chissà perché.
Mi piacerebbe scrivere canzoni, ma poi mi accorgo sempre che quello che ho dentro qualcun altro lo canta già; e poi comunque sono decisamente stonato (ed anche un po’ scontato).
E allora cosa potrei scrivere di tanto interessante per qualcun altro che non sia io? Questo proprio non lo so, pertanto non ci provo neanche, ma a me farebbe veramente molto piacere rileggere tutte quelle lettere, quelle frasi, quelle parole che negli “anni” di esperienze sentimentali passate ho disseminato, devo dire con molto piacere, a tutte le mie “donne” o presunte tali (presunte da me, ovviamente).
Ora è tutto chiaro, questo è un appello formale, ufficiale: “Vi prego, speditemi una copia (anche l’originale se non vi serve più!!) di tutte le mie sbrodolate di parole, saprò trovare un modo per ricompensarvi, grazie”.
Più o meno potrebbe suonare così, ma come faccio per inviarlo a tutte. Un annuncio per radio, una pagina di un quotidiano, un messaggio alla nazione stile “Presidente”? Aspetto l’ispirazione. Vedremo.
Nell’attesa continuo a scrivere a chi e per chi mi viene naturale, spontaneo. Per chi ho dentro. Credo che in molti avrete letto “Taccuino di un vecchio porco” dell’indefinibile Charles Bukowski, beh, io invece avrei sempre voluto scrivere “Taccuino di un giovane sognatore”.
I miei sogni, le mie fantasie, i miei pensieri, la mia vita. Nessuno mi potrà mai togliere tutto ciò. Niente posso più togliere, ma solo aggiungere. Leggere, conoscere, crescere e scoprire con piacere che non c’è proprio bisogno di scrivere nulla, basta saper cercare, cercare con pazienza.
Scusate, torniamo però all’argomento principale, ovvero alle mie lettere d’amore.
Chissà dove saranno ora. Chissà in quale cassetto, armadio o scatola in soffitta saranno finite. Ognuna una storia, ognuna diversa, ognuna un me diverso, sempre un po’ diverso. Ma comunque sempre lo stesso sognatore. Con i sogni che crescono, con i sogni sempre un po’ meno sogni e sempre un po’ più vita.
Rileggendo tutte quelle lettere potrei ridermi addosso su come sono cresciuto e su come sono arrivato a come sono. Forse capire anche come oggi sono.
Questo è quanto scrivevo circa 15 anni fa, tra un pensiero e l’altro mentre, ogni tanto, rimettevo in ordine i miei appunti, facevo un trasloco, cambiavo lavoro, cambiavo amore.
Certo, oggi con internet e i social network tutto sarebbe più facile. Ma oggi, non dovrei dirlo, chi si ricorda certi nomi (e soprattutto i cognomi…). E poi, siamo certi che tutte accettino la mia “richiesta di amicizia”? E certamente alcune potrebbero fraintendere. Io vorrei solo riavere le mia lettere…
Ma mentre rileggevo tutto questo un mio amico mi ha fornito l’ispirazione che a me non arrivava. Certamente un po’ fantasiosa, poco probabile ma molto romantica e affascinante.
Prima però un paio di dettagli per spiegarvi meglio.
Sono nato e cresciuto a Monteverde. Ora vivo a Trastevere e lavoro a Piazza Ippolito Nievo. Porta Portese è sempre stata una cosa di casa.
Allora ecco che un giorno questo amico mi dice: ma vai a cercare le tue lettere a Porta Portese. Tutto sommato è anche per questo che c’è il mercato. C’è di tutto. Basta cercare.
Commenti recenti